Mia nonna diceva ai suoi tempi che l’amore e’ un giorno, il resto sono i pesi della vita che ti fanno venire la gobba per il troppo carico, ma questa è un altra storia.
Ecco ci risiamo. Di nuovo San Valentino. Come ogni anno. Puntuale e impeccabile. Con tutte le proposte «fai da te». Con tutte quelle frasi fatte e quei cuori di cioccolato riciclati e buttati sul mercato, anche in periodo di crisi. Anzi, soprattutto in periodo di crisi. Perché poi è sempre così, l’economia fagocita tutto e strumentalizza qualunque cosa. Allora perché non approfittare della festa degli innamorati per proporre offerte e pacchetti per coppie in cerca di idee «low cost»? Perché non svendere l’amore esattamente come a Natale si svendono i buoni sentimenti?
Quando ero adolescente, il 14 febbraio era uno di quei giorni che non sopportavo.
Sempre innamorata e sempre sola. Perché i miei colpi di fulmine erano quasi sempre sbagliati. E nonostante ce la mettessi tutta per evitare gli errori, finivo con l’innamorarmi di qualche principe azzurro di carta pesta che poi, ovviamente, non ricambiava i miei sentimenti.
San Valentino era un momento di verità. Che mi costringeva a fare i conti con il reale e a prendere coscienza del fatto che ero prigioniera della «ripetizione». «Ripetizione in che senso?» mi chiede oggi la mia migliore amica, convintamente single, perché lei all’amore ormai ha smesso di crederci. E ricorda i suoi San Valentino del passato con il sarcasmo di chi, diventato adulto, pensa che solo le ragazzine possano ancora innamorarsi. «Ripetizione di un copione imparato a memoria quando eravamo bambini, e che ci porta a idealizzare una persona, appiccicandole addosso tutta una serie di caratteristiche che invece non ha.»
Quando ci si innamora, che lo si voglia o no, si ha tendenza a cercare «l’oggetto perso», come spiega bene Freud. Ossia non tanto una persona capace di amarci come siamo – e che anche noi impariamo pian piano ad amare per quello che è –, ma un’immagine ideale di quello che abbiamo perduto nell’infanzia. Quel sentimento di fusione e di benessere infinito perché avevamo la certezza di «essere una cosa sola» con l’altro, con la mamma che ci accudiva o con il papà che ci cantava la ninna nanna.
E allora basta percepire qualcosa che conosciamo già, per innamorarci e partire per la tangente. Nonostante l’altro non corrisponda affatto alle aspettative che abbiamo. E non appena si rende conto della prigione in cui cerchiamo di metterlo, fugge via per non sentirsi soffocare.
Peccato che la ripetizione, con l’amore, non c’entri niente. E che l’amore accada quando la si smette di riprodurre schemi antichi, per aprirsi alla differenza e alla specificità di chi ci è accanto. Ma per questo, non c’è bisogno di San Valentino. Anzi. È nella quotidianità che le maschere cadono e si impara a conoscersi reciprocamente. Senza bisogno di scegliere un giorno speciale per dirsi che è accanto a «lui» o accanto a «lei» che ci sentiamo riconosciuti, accettati e amati.
Vi ricordare la canzone di Luca Carboni, «O è Natale tutti i giorni, o non è Natale mai»? Sì, proprio una di quelle canzonette che molti intellettuali sdegnano e che invece a me piacciono tanto. Perché ci ricordano che il linguaggio comune, tante volte, è capace di nominare le cose in modo corretto mettendo un po’ d’ordine nel mondo. Ebbene, per San Valentino vale lo stesso discorso.
L’amore non lo si può semplicemente «dire» un giorno all’anno. L’amore lo si «fa» e lo si «costruisce» giorno dopo giorno. Anche quando le difficoltà della vita appannano l’immagine che ci costruiamo dell’altro. E ci costringono a capire che è proprio «lui» o proprio «lei» che ci permettono di lasciare perdere la ricerca estenuante dell’«oggetto perso», per condividere la realtà dell’amore «trovato».
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